La guerra tra finzione e banalità della realtà
Un momento di Studio di Call of Duty |
Tatiana
Olear è senza dubbio curiosa. Per scrivere un'opera come Call of
Duty: Fake Version, alla base c'è tanto lavoro di ricerca
sull'attualità. Guerra in Siria, in Iraq e in Ucraina: sono scenari
tragici che ascoltiamo spesso con superficialità da un televisore
acceso o dal giornale radio mentre si è in auto. Qualche d'uno
approfondisce con un libro, un reportage o un film, la maggior parte
però si limita a vedere o ascoltare frammenti, senza farsi troppe
domande. L'autrice invece vuole che lo spettatore si interroghi e per
destare l'attenzione si concentra sulle scelte di vita di alcuni
giovani ispirati a persone reali.
Ci
sono giovani, non residenti negli scenari di guerra, che decidono di
armarsi e partire. Spesso vengono da Paesi in cui non sono in atto
conflitti e in cui gli standard di vita sono immensamente superiori a
quelli delle aree di guerra. La Olear si è interrogata su queste
scelte di vita e su chi ha deciso di percorrerle. C'è chi ha
abbracciato il fanatismo religioso e chi ha seguito un ideale
estremista. Cosa sta dietro a certe decisioni? Qual è la causa che
muta, se non rovina, la vita di una persone nel fulgore degli anni?
Lo
Studio su Call of Duty – Fake Version vuole farci comprendere i
soggetti. Lo spettacolo teatrale è intenso, grazie anche alla regia
di Manuel Renga e alla bella prova di recitazione dei giovani Valerio
Ameli, Sara Dho, Francesco Meola e Silvia Rubino. Sul palco ci
regalano quattro storie accomunate dal grande tema della guerra e
otto personaggi che fanno i conti con le crepe delle identità
contemporanee: umane e fragili. Abbiamo una madre con un bimbo
impaurito, due giovani che si interrogano sul significato dei sogni e
infine la realtà ben più tragica della fantasia. Due donne
convertite all'islam e aderenti al famigerato Stato Islamico
dell'Iraq e del Levante, finiscono per essere ridotte al ruolo di
madri di famiglia borghese, non poi così diverse da quelle degli
spot pubblicitari. In una delle tante crisi dell'ex blocco sovietico,
due mercenari alternano realtà di guerra a finzione da videogames.
Call
of Duty è un videogioco “sparatutto”, uno di quelli dove sullo
schermo appare un'arma da fuoco con cui si deve abbattere il maggior
numero di nemici. Nella nostra Europa pacificata tanti giovanissimi
si divertono così, ad ammazzare per gioco i cattivi. Alcuni però
passano dalle armi giocattolo a quelle vere. Il peso di ideologie che
ormai sembrano lontane, ma in alcune nicchie sopravvivono e un
estremismo religioso, spesso unico sbocco per europei di seconda
generazione lasciati a marcire nel degrado delle periferie, sono i
fattori scatenanti di ragazzi e ragazze che si votano alla guerra. E
sulla nostra società, che non sa impedire follie come queste,
dovrebbe apparire la scritta che contraddistingue l'uccisione del
protagonista di ogni videogioco: Game Over.
Leonardo
Marzorati
Molto interessante.
RispondiElimina